Salvatore Murano

Sembra un alchimista, uno di quei personaggi avvolti da un’impalpabile aura di mistero. Eppure temo di non fargli giustizia, di tradirne la missione. Egli è un custode attento– mai geloso – che veglia notte e giorno sulle fondamenta di un edificio fantasmagorico dove si mescolano saperi antichi e profumi di spezie, di radici rugose, di tuberi profumati. O di pampini recisi da arbusti caparbiamente appesi alle pareti scoscese della sua regione, di una Calabria ionica che svela un profilo dolce di terre porose e di mari placidi da cui giungono ancora, dopo millenni, i clangori degli elmi e degli scudi ellenici, vinti dalla malìa di quell’ultima propaggine di un Eden mai perduto.
Salvatore non teme neppure di accostare un baccello tenerissimo a un fungo prataiolo o a un carciofo ancora selvaggio, e di sposarli.
In lui ritrovo l’ostinazione di quei viaggiatori del Grand Tour del Settecento, capaci di aprire nuovi var- chi su strade ignote, che disvelano alcuni tra i segreti più nascosti della sua cucina: cesti traboccanti di datteri e di grappoli imbionditi dal sole, molluschi dai carapaci graffianti e violacei, tonni dal profilo seghettato e aragoste rosse come il corallo, polpi tentacolari.